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Un racconto di Miss Besant

Il sole era già alto quando aprii gli occhi dopo una notte di profondo e sereno sonno come capita di avere a sedici anni. Alzai lo sguardo al soffitto della camera e mi cullai al suono familiare della casa nel mattino domenicale.

Fu in quel mattino normale, banale che, non da fuori, ma da dentro, da dentro la mia testa, non solita in quel tempo a profondi pensieri esistenziali, un’orribile consapevolezza mi paralizzò: io morirò.

L’idea appena concepita, come un lampo mi avvolse, mi provocò un tumulto, l’ineludibilità di quell’evento, che pur sentivo lontano, la certezza che esso era lì, da qualche parte nel tempo a venire, mi terrorizzò: “ Io, Andrea Palmeri, morirò. Io e il mondo … il mio mondo?”

Un irrazionale moto di ribellione mi fece scattare come una molla, seduto sulla sponda del mio letto ispezionai con mano tremante il mio viso, mi scompigliai i capelli, chiusi gli occhi e vidi, davvero vidi, come in un cielo nero, tutti i miei sogni, tutti i miei giorni precipitare, insieme al mio corpo, in un gorgo rotante verso il nulla. La mia mente vorticava sull’orlo della follia.

Per salvarmi, a forza mi staccai da quel pensiero, non indagai oltre. Ma quella certezza acquisita in un mattino normale, banale, restò lì, nella mia testa e, senza che se ne accorgesse la coscienza, mi pervase. Essa, la consapevolezza, si nascose nei circonvoluti meandri del cervello e vi sprofondò.

Vissi e mi convinsi, più avanti, di avere un posto, un significato in un disegno divino, uno scopo. Mi volsi a un Dio bonario e onnipotente che mi avrebbe salvato dall’eterno oblio. Egli, insieme ai figli, che nel frattempo erano nati, alla moglie, al lavoro, alla scalata sociale, mi tennero a lungo lontano dal pensiero della morte. Della mia morte però, perché intanto, intorno qualcuno spariva senza lasciare vuoti, subito rimpiazzato da altrettanti figuranti sulla scena del mio vivere quotidiano. No che non mi sia passata accanto, la morte. Strisciante e silenziosa si è insinuata nella mia casa ed ha colpito. L’ho vista ghignante, stendere la sua mano sul viso di mia madre a spegnerne il fiato, mi ha guardato mentre lo faceva, uno sguardo gelido impassibile. Ho provato sollievo che non fosse venuta per me.

La morte, quella che ci appartiene, non è un argomento di cui le persone parlano volentieri, anche se vorrebbero farlo, temono che, evocandola, essa possa sentirsi in dovere di avvicinarsi, ascoltarci, sentirci disponibili ad accettarla, ad accoglierla, perciò l’argomento o meglio il confronto con lei si esplica solo nel chiuso del nostro cervellotico lavorio. Proprio perché sottaciuta, volutamente ignorata, nutrita dal nostro timore, essa si espande e, col passare degli anni, invade ogni specchio che ci riflette, mostrando il ritrarsi della vita.

Tutti questi anni passati a sfuggirla, impersonando ruoli che non mi appartengono più, mi hanno lasciato ora spazio e tempo per cercare un nuovo ruolo, una nuova maschera a cui dar spessore per continuare a vivere o almeno a credere di farlo. Il fatto è che quel vuoto che prima immediatamente si riempiva senza scuotimenti nell’anima mia, ora resta e si ingigantisce, diventa incontenibile nelle mura della mia casa e, in questo silenzio, ritorna l’eco di quell’antica consapevolezza: io morirò.

“Ma basta! Non morirò mica stasera.”

Stasera… stasera…stasera… l’eco di questa parola rimbalza tra le pareti della casa.

Vado a fare una passeggiata: il cappotto, la sciarpa, il cappello, ah, le chiavi; lo specchio dell’ingresso mi mostra un vecchio signore dallo sguardo sfuggente, lo ignoro ed esco lasciandolo alle sue ansie, alle sue paure.

Ha smesso da poco di piovere, l’acciottolato della via riverbera la luce rossastra del lampione, l’aria pulita, fredda, mi lava il viso e mi rinfresca i pensieri.

Girato l’angolo della via, la piazza mi si mostra deserta e lucida, circondata dall’ampio porticato ad archi; lì non arriva la luce dei lampioni e solo qualche vetrina illuminata spezza le ombre del colonnato. Attraverso la piazza a passi lenti, affascinato dalla mia ombra che mi danza intorno soggiogata dalla luce che varia direzione. Ora è davanti a me, si allunga dai miei piedi senza distacco, quasi propaggine del mio corpo, si accorcia deformandosi proiettata verso destra, seguendo la scia del chiarore, si sposta ancora, non la vedo più dietro le mie spalle, ma so che non si è mai separata dalla mia persona.

“ Sa- dice una voce proveniente dal buio del porticato- sarebbe meglio se lei venisse a passeggiare qua sotto. È più sicuro”.

La voce non sembrava avere un corpo, avvolta com’era dall’oscurità. Mi fermai per capire da quale direzione venissero quelle parole e girai intorno lo sguardo.

“ Sono qui, alla sua destra, venga presto. Potrebbe essere pericoloso restare lì, la sua ombra è netta sulla strada”.

Aguzzando la vista, mi diressi verso la direzione indicata, intravidi nel buio una figura indistinta: “Ma cosa fa seduto a terra, chi è lei?” Temendo un brutto incontro mi tenni a distanza. Certo ne gira di gente strana, pensai.

Lo scatto di un accendino sprigionò una fiammella dinanzi al viso dello sconosciuto e mi permise di intravederne i tratti: era un ragazzo di vent’anni al massimo, neri riccioli scivolavano fuori da cappuccio grigio della felpa, sorrideva a labbra chiuse e aveva negli occhi un brillio irriverente nei miei confronti che mi irritò alquanto.

“ Sono qui, alla sua destra, venga presto. Potrebbe essere pericoloso restare lì, la sua ombra si muove netta sulla strada”.

“Venga qui, nell’oscurità la sua ombra non sarà visibile e se non vede muoversi l’ombra, la morte non si accorgerà di lei e non potrà colpirla. Poco fa era qui, nascosta dietro una colonna del porticato. Lei, la morte, ruba le ombre che si spostano e ci rende inconsistenti, fantasmi. Comprende? Ha mai visto uno spettro proiettare la sua ombra sul terreno? No, egli stesso è solo un’ombra rubata, nella disperata ricerca d’un corpo ormai dileguato. Mi dia retta, quando si muove, stia attento che la sua ombra non la segua. Io non mi farò fregare dalla Signora, sto al buio, cammino rasente i muri e, se per caso una luce mi colpisce, rendendo visibile la mia ombra, rimango immobile, mi ripiego su me stesso e la nascondo sotto il mio corpo, come cosa senza vita”.

Bella idea la legge Basaglia, penso: “ Ehi ragazzo, -dico- ti sei bevuto il cervello o hai la sindrome di Peter Pan? Tranquillo, a parer mio, la morte è inevitabile; accade a tutti, senza ombra di dubbio. Rassegnati.”.

Riprendo la mia passeggiata, lasciando il ragazzo alle sue farneticazioni. Un velo di nebbia si è alzato smorzando il lume dei lampioni, un refolo gelido mi avvolge. Le luci di un bar ancora aperto mi invitano ad avvicinarmi. “Magari prendo una tisana, – penso – mi scalderà un poco”.

I tavolini all’interno sono quasi tutti vuoti, gli ultimi clienti vanno via, senza guardami, proprio quando sto per entrare.

“Stavo chiudendo -mi dice l’uomo al bancone – ma entri pure, non c’è nessuno che mi aspetta a casa. Cosa vuole che faccia per lei?”

“Qualcosa di caldo, fa freddo stasera, poi tornerò a casa, anch’io non ho nessuno che mi aspetta”.

“ Si sieda, le preparo una tisana e la porto al tavolo”.

Mi siedo e poggio il cappello sulla sedia accanto a me, mi sbottono il cappotto e chiedo: “Posso fumare?”

“ Ma sì, a quest’ora non viene più nessuno, anzi, se permette, mi siedo accanto a lei e ne fumo una anch’io” dice posando la tazza fumante sul tavolo.

“Ho visto un ragazzo poco fa, sta seduto a terra sotto il porticato e fa strani discorsi”

“Non lo ascolti, signore, il poveretto è morto e non lo sa. La sua ombra è sparita dal terreno senza che lui se ne accorgesse, tempo fa, e non lo saprà se non quando uscirà alla luce e non la vedrà più stendersi sul terreno e danzargli intorno. Una disattenzione, una spavalderia ed è fatta. Rubare un’ombra, niente di più facile! Capita a tanti, sa, non se ne accorgono. Non hanno capito che la morte non è un evento ma un processo. A volte lungo e penoso, altre breve e inatteso ma la sentenza è sempre inappellabile ”.

Guardo sbigottito la faccia del barista, mentre lui sorridente tira via dal pacchetto una sigaretta e l’accende.

Io non riesco a spiccicare una parola, dopo il suo discorso mi sento stanco e non ho più voglia di bere la tisana che nel frattempo si è raffreddata. Mi alzo per uscire, voglio tornare a casa. Faccio pochi passi sulla piazza, poi mi giro a guardare indietro, il barista davanti alla porta mi fa segno di guardare a terra ed allora mi accorgo che la mia ombra non c’è, non c’è più.

Preso dal panico, comincio a girare intorno a me per cercarla, poi con lo sguardo interrogo il barista: “No – mi dice – non è qui. Guardi che non c’era già più quando è entrato. Gliel’ho detto, capita a tanti, non se ne accorgono subito. Un’eco nella mia testa ripete: “Stasera… stasera… stasera”.

6 commenti su “Ombre”

  1. L’idea a me piace, pur non essendo un gioco nuovo di zecca, funziona e qui è trattato abbastanza bene. Certo non ha il modo di un racconto destinato ai piccoli, una fiaba, troppo introspettivo, troppo riflessivo e poca azione. però sarebbe interessante vederlo trasformato e vestito da avventura per ragazzi.

      1. sono d’accordo con te, ma il regolamento diceva che bisognava dare tre preferenze. Dalla Volante non arriva alcun chiarimento e perciò voto così:
        Saka e Scalzo ***
        Il figlio di Jack **
        Ombre *
        Non mi è sembrato ci sia stata grande partecipazione al gioco.

  2. Ciao! Questo racconto tocca un tema molto interessante, che riguarda ognuno di noi, e credo che chiunque nella propria vita abbia pensato almeno una volta alla morte, a come morirà, a cosa c’é oltre la morte e nel racconto abbiamo una sorta di spiegazione: la vita continua anche dopo la morte. È stato raccontato questo mondo come uguale al nostro, come una normale continuazione, priva del corpo, quindi dell’ombra, il riferimento è più che chiaro. Il protagonista, tuttavia è stato un po’ contraddittorio, poco prima di uscire si era fatto prendere dall’ansia e dal pensiero della morte, quel «… non morirò mica stasera» è palese che sia stato un tentativo fallimentare di autoconvinzione, quindi mi chiedo come fa a dire con naturalezza al ragazzo di non preoccuparsene e che è un evento normale? Specie dopo il leggero sbigottimento percepito mentre parlava il ragazzo. Un appunto su questa parte del racconto: l’accendino faceva luce quindi il protagonista aveva visto dove fosse il ragazzo, perché specificare quì a destra? Perché subito dopo c’è uno stacco nel dialogo se è sempre il ragazzo a parlare?
    Infine un solo dubbio: il barista é la personificazione della morte?
    Per la consapevolezza che ha io credo di sì, considerando anche che la vicenda avviene nella piazza davanti al bar e che esce da lì gente “distratta” ma che in realtà può darsi che sia solo sconvolta dalla presa di coscienza di essere morti
    Un altro appunto, credo che si doveva specificare un po’ meglio quali fossero quelle persone morte intorno al protagonista e quali gli eventuali rimpiazzi, trasmettendo al lettore la solitudine del protagonista sbattendogli in faccia che era senza moglie e forse, ormai, anche senza famiglia.

    1. Ciao Eliosop,
      Grazie per l’attenzione che mi hai voluto dedicare.
      I tuoi commenti sono molto interessanti ed ho voluto esaminarli punto per punto.
      Al primo appunto, rispondo che il nostro Andrea non poteva sapere come la morte colpisse, sapeva solo che era inevitabile, niente immaginava di ombre rubate e involate con astuzia. per lui è follia.
      La luce dell’accendino e l’indicazione della posizione avvengono simultaneamente nel corso del dialogo, mentre il vecchio si sorprende per il discorso vaneggiante del giovane.
      hai ragione sullo stacco, non era necessario.
      le persone che scompaiono senza lasciar vuoti sono , per lo più quelle che nel nostro vivere quotidiano hanno basso profilo: il vicino di casa o il tabaccaio all’angolo. Sono piccoli allarmi che si spengono in un attimo. Gli altri, quelli che contano sono la ripetuta terrificante presenza di lei: la morte. E della morte è meglio non parlarne che potrebbe credersi invitata.
      Interessante la tua idea sul barista: hai colto nel segno.

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